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Quattordicesima domenica del tempo ordinario

dal vangelo secondo Luca
Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe. Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l’operaio è degno della sua mercede. Non passate di casa in casa. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà messo dinanzi, curate i malati che vi si trovano, e dite loro: Si è avvicinato a voi il regno di Dio. (Lc. 9, 51–62)

Gesù, prima manda i dodici apostoli e poi, è il vangelo di oggi, manda settantadue discepoli. Questo numero molto grande è forse l’indizio che tutti coloro che credono in lui devono essere dei mandati, dei missionari. Anche noi dunque lo dobbiamo essere ed è ciò che spesso papa Francesco ci ripete. Ma come possiamo noi essere missionari? Di solito i missionari sono quelli che vanno nei paesi dove il Signore non è ancora conosciuto e noi siamo persone stanziali e andiamo in paesi esotici soltanto per qualche breve periodo di vacanza. Dobbiamo superare questa idea che forse andava bene cinquanta anni fa. Non abbiamo certo bisogno di andare chissà dove, basta che ci guardiamo intorno. In Italia abitano oggi circa sei milioni di persone straniere e la gran parte di essi non sono cristiani. Più ancora! Ci sono decine di milioni di italiani puro sangue che non sono più cristiani. Magari hanno ricevuto il battesimo e fatto la prima comunione, ma del cristianesimo hanno solo questo sbiadito ricordo infantile e nulla più. In questi ultimi tempi vediamo che anche i figli di famiglie buone, non vanno più in chiesa e si adeguano alle mode dei loro amici; non si sposano, ma convivono; tornano a casa quando sorge la luce della domenica e poi dormono fino all’ora di pranzo. Messa e sacramenti vari o preghiere passano allegramente…in cavalleria. Ecco la nostra “missione”, il campo nel quale dobbiamo testimoniare la nostra fede.

Mandandoci Gesù senza complimenti ci dice che ci manda come agnelli in mezzo ai lupi. Questo ci dice che il campo di azione di questa nostra opera non è mai facile; le difficoltà allora come oggi sono grandi e l’ambiente umano al quale dobbiamo rivolgerci è ostile e spesso, peggio ancora, indifferente. Si, l’indifferenza è peggiore della ostilità, perché sembra che alla onnipotenza e sazietà dell’uomo di oggi non importi proprio nulla di quello che ci può essere oltre a questa vita terrena. Ci viene detto inoltre che non dobbiamo supportare la nostra testimonianza con beni materiali e non dobbiamo pensare troppo a noi stessi; ciò di cui avremo bisogno ci sarà dato. Si, anche le parole giuste al momento giusto. Bisogna inoltre testimoniare “a due a due”, cioè come comunità e non solo come individui. Infine dobbiamo mettere in conto che spesso possiamo trovare porte chiuse e questo non ci deve turbare. Sono tante infatti le persone che incontriamo ogni giorno.

Cosa dobbiamo testimoniare? Partendo dall’augurio pasquale della pace, vorrei scendere a comportamenti concreti che possano essere vissuti da ciascuno di noi. La prima cosa che dobbiamo fare non è certamente di invitare le persone a venire in chiesa, ma piuttosto quella di interessarci con sincerità e verità della persona che abbiamo davanti. Questo è possibile con l’ascolto e con l’accoglienza di ciò che essa sta vivendo. Inoltre non dobbiamo preoccuparci se essa vive situazioni che non condividiamo alla luce del vangelo. Dobbiamo sentirci veramente il personale dell’ospedale da campo che è la chiesa, accogliendo tutti, anche quelli che forse non hanno che poche tracce di umanità. Dobbiamo conoscere e curare con l’amore le piaghe che hanno, astenendoci dal fare prediche e donando semplicemente il nostro sorriso, la gioia vera di vederli e di poterli ascoltare. Insomma, li dobbiamo semplicemente portare nel cuore come fratelli e dare per loro la nostra discreta preghiera. Sarà il Padre che aiuterà il rapporto ad evolvere con la sua grazia. Sarà ancora lui che ci ispirerà le parole e gli atteggiamenti veri, quando ci incontriamo e riprendiamo il discorso.

Vorrei dire ancora una parola per chi vede i figli ed i nipoti allontanarsi dalla fede. Non usiamo mai imposizioni o ricatti affettivi con loro. Dire: “Sono addolorato che tu non vai più a messa” serve forse a suscitare sensi di colpa che possono allontanare di più questi figli. Amiamoli e basta! Accettiamoli diversi, dando sempre ad essi la nostra gioia di vederli e di saperli con noi. Naturalmente preghiamo per loro con tutta l’intensità del nostro amore. A volte il Signore li farà arrivare da noi quando vivono delle sconfitte o sofferenze. Senza prediche a peggio ancora con dei “Te lo avevo detto!” offriamo loro il nostro ascolto pieno di amore. Cerchiamo di essere il porto in cui rifugiarsi dopo ogni tempesta. Il nostro amore senza limiti, la nostra forza che non si meraviglia di nulla, forse sarà l’aggancio che li riporta a cercare quella fede che noi abbiamo.