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Quarta domenica di Pasqua

dal vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola». (Gv.10, 27– 30)

Il buon pastore è la figura che Gesù ci lascia in questa quarta domenica di pasqua. Cosa fa lui per noi? “Io do loro la vita eterna”, ci dice ed è ciò che abbiamo vissuto in questa festa, appena passata. Siamo stati inseriti in questa salvezza con il battesimo. Se ricordate, nella veglia pasquale abbiamo riscoperto il segno dell’acqua e abbiamo ridetto, questa volta non più bambini, ma adulti consapevoli e convinti, le promesse che allora padrini e genitori avevano fatto a nome nostro. Abbiamo promesso di lottare contro il male sempre emergente dal nostro cuore e dal tempo che viviamo; poi abbiamo solennemente promessi di credere nell’unico Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo. Ci ha pure rassicurato che nulla e nessuno può strapparci dalle sue mani e da quelle del Padre, perché lui e il Padre sono una cosa sola. Importante è riflettere su queste ultime parole. Spesso infatti ci sentiamo così fragili e dubbiosi che ripetiamo la classica frase: “Io ho perso la fede!” Mi è venuto in mente che forse queste parole ce le suggerisce proprio il Signore. Esse infatti sono una specie di scossa che ci risveglia, ci fa pregare e magari, almeno per un poco di tempo, ci fa vivere una adesione più convinta a lui. Che sia la scrollata provvidenziale della sua mano potente che ci richiama all’ordine? Io penso proprio di si. Come la stessa cosa può essere anche qualche stupidissima sbandata che ci fa vergognare e ci fa pensare alle conseguenze bruttissime che ne sarebbero conseguite, se la sua “sberla” non avesse messo nuovamente in azione il nostro cervello. Si perché il Signore spesso sa tirar fuori il bene anche dai nostri stupidi comportamenti. Ne siamo consapevoli, non è vero? E dirgli grazie, sarebbe proprio il minimo.

Nelle poche parole del vangelo di oggi ci viene anche detto che razza di pecore noi battezzati dobbiamo essere. Vogliamo vederle con calma? “Le mie pecore ascoltano la mia voce”. Ecco la grande riscoperta del concilio Vaticano secondo: la parola di Dio. Questa parola si conosce mediante l’ascolto. Non soltanto nelle celebrazioni ufficiali, ma con un lavorio incessante che ciascuno di noi personalmente può e deve fare. Questo impegno non è solo qualcosa di scolastico; capire ciò che leggiamo è importante, ma è soltanto il dischiudersi di una porta che ci mette su di una strada infinita. Si, perché questa porta aperta ci mette davanti una strada che giorno dopo giorno ci immerge sempre più profondamente nell’infinito mister dell’amore del Padre. Per questo Gesù ci ha detto prima delle parole lette oggi, che le sue pecore non conoscono la voce degli estranei. Abitando in modo continuativo la sua voce possiamo districarci dalla babele di voci che i “sapienti” di questo mondo ci rovesciano addosso ogni momento fino a stordirci. L’abitudine all’ascolto del Signore, ci fa liberi e capaci di discernere tra questo incessante chiacchiericcio (neologismo inventato da papa Francesco) magari qualche pagliuzza di cose preziose. Soprattutto però ci salva dalla colluvie di inutili sentenze che gli “esperti” buttano sui semplici magari per portarli come degli odierni pifferai ad affogare nel nulla. Filtrare queste sentenze con la Parola ci fa veramente liberi.

“Le mie pecore io le conosco”. Riusciamo a cogliere lo splendore di questa affermazione? Il Signore mi conosce non con lo sguardo benevolo e presuntuoso di chi guarda una piazza di sette miliardi di persone. No! Lui mi conosce chiamandomi per nome, conoscendo le mie poche virtù ed i miei grandi limiti. Lui sa i miei gusti e spesso mi fa incontrare sorprese che mi riempiono il cuore di gioia. Come ieri negli incontri personali con tanti amici, che mi hanno aperto la porta ed il cuore nella faticosa benedizione pasquale delle famiglie. Lui conosce le mie povertà e le mie ferite, anche quelle più nascoste e l’essere preso sulle sue spalle non è una bella immagine, ma una reale esperienza che allarga il cuore.

“Le mie pecore mi seguono”. Ahi me, Signore, qui casca l’asino! Ci provo sinceramente, ma purtroppo il peso della mia umanità è una zavorra che mi paralizza. Emergono i miei limiti e le tentazioni mi circondano e spesso prevalgono sui buoni propositi. So che tu mi hai posto davanti un traguardo impossibile: “Siate perfetti come il Padre”. Io posso solo vedere l’infinita distanza che mi sta davanti. Facciamo un patto? Prendimi magari non sulle spalle, ma anche per i capelli e portami tu, la dove non sono capace di arrivare!